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controapologetica
 
Monday, 29 April 2024
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                                                   Dalla bocca alla fogna:

                  la metabolizzazione delle specie eucaristiche

 

 

 

Nel capitolo precedente abbiamo esaminato le sferzanti parole con cui Gesù stesso ricorda il percorso di ogni alimento ingerito: dalla bocca al ventre, e infine alla fogna.

Questo ci sembra rendere opportune alcune considerazioni su un problema che la Chiesa non ci risulta abbia mai veramente affrontato (salvo, forse, in un documento di cui si dirà): il problema delle implicazioni teologiche della metabolizzazione delle specie eucaristiche, ossia della trasformazione biochimica che subiscono il pane ed il vino assunti dal fedele passando attraverso il suo tubo digerente. (Precisiamo che per ragioni di economia verbale usiamo il termine “metabolizzazione” nel senso più largo, per indicare l’insieme delle trasformazioni subite nell’organismo dagli alimenti ingeriti, e quindi anche quelle di ciò che non viene assimilato o utilizzato per produrre energia, ma semplicemente espulso dopo essere transitato per il corpo.)

 

A questo scopo, richiamiamo innanzi tutto quanto abbiamo detto nel primo capitolo circa la natura inoppugnabilmente cannibalica dell’assunzione eucaristica: se la presenza del corpo e del sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino è reale, non puramente simbolica, allora l’ingestione dell’ostia e lo svuotamento del calice sono, al di là di ogni ragionevole dubbio, atti di cannibalismo reale, non simbolico, poiché si tratta della carne e del sangue di qualcuno che è vero uomo (oltre che vero Dio).

Ma se si tratta di ingestione reale del corpo e del sangue del Cristo, vi dovrà pur essere una digestione reale, e alla fine un’espulsione, ovvero evacuazione, reale. È assurdo rifiutarsi di accettare le conseguenze ultime di certe affermazioni.

 

Tra il sublime e l’orrido, sappiamo, ci corre un capello. Per il credente, il comunicarsi dà l’ineffabile dolcezza di avere Gesù nel cuore, per il non credente o il non cattolico evoca, tutt’al più, la sgradevole sensazione di averlo sullo stomaco. Cuore e stomaco sono vicinissimi, ma mai come in questo caso occorre dire che non è questione di centimetri. Del resto, si potrà sempre argomentare, al modo di san Pietro, che per il Cielo un centimetro è come un anno-luce e un anno-luce come un centimetro.

Ed è lo stesso Gesù, abbiamo visto, ad ammonirci che cuore e apparato digerente sono due entità radicalmente diverse e disgiunte, agli effetti di un’eventuale contaminazione o santificazione dell’uomo mediante l’ingestione di alimenti.

 

È per noi difficile dire se il problema che qui ci interessa – ossia, giova ripetere,  la metabolizzazione delle specie eucaristiche con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano teologico - sia mai stato veramente affrontato dalla Chiesa.

Nella Summa Theologiae san Tommaso sembra preso, o almeno sfiorato, da qualche preoccupazione del genere. Nella questione 77 della parte terza egli afferma che le specie sacramentali possono corrompersi, nel qual caso “il corpo e il sangue di Cristo non rimangono più nel sacramento”; che dalla loro corruzione è inevitabile che venga generata qualche altra cosa; che il pane e il vino conservano la loro funzione nutritiva.

 

Ma in genere, a parte l’ultima considerazione, del resto teologicamente poco significativa per il nostro discorso, l’interesse è rivolto a quel che avviene alle specie eucaristiche nel tempo immediatamenente successivo alla consacrazione, quando ancora sono nella pisside e nel calice, anteriormente dunque all’assunzione da parte del fedele e indipendentemente da essa (la stessa cosa ricorda Giovanni Paolo II nell’ Ecclesia de Eucharistia: “La presenza di Cristo sotto le sacre specie che si conservano dopo la Messa […] perdura fintanto che sussistono le specie del pane e del vino”).

Manca, insomma, la precisa volontà di affrontare quella che si potrebbe chiamare “fenomenologia eucaristica a partire dall’assunzione delle specie”, ossia i problemi della metabolizzazione di queste ultime, del loro mutante rapporto col corpo di Cristo, nonché delle modalità e della durata della permanenza del Cristo stesso nel corpo del fedele comunicatosi.

 

Proprio negli stessi anni in cui san Tommaso arrivava a sfiorare il discorso di cui ci occupiamo, giungeva più vicino al cuore del problema un documento del Magistero, la bolla Transiturus de hoc mundo emanata nel 1264 dal papa Urbano IV.

In essa leggiamo: “Questo pane è assunto, ma in verità non è consumato; è mangiato, ma non è tramutato, perché non è per nulla trasformato in colui che mangia, ma, se è ricevuto in modo degno, colui che lo riceve è a lui conformato” (DS 847; corsivo nostro).  S’intende che “questo pane”, a cui si trova “conformato” chi lo mangia, non è la specie eucaristica, ossia l’ostia, bensì il “Verbo eterno di Dio” che nell’ostia si cela.

 

Senonché, ecco il punto, se il Cristo si cela sotto le specie del pane, che cosa avviene al trasformarsi fisiologico di questo pane nel corpo del fedele? A quanto sembra, la precisazione di Urbano IV ha proprio lo scopo di scongiurare i corollari teologici dell’ingestione e della successiva digestione dell’ostia.

L’argomentazione che egli adduce è però inconsistente. È vero infatti che nell’eucarestia è il mangiante che si assimila al mangiato, al contrario di quanto avviene nei processi nutritivi. Ma si badi: ciò vale soltanto per l’anima del fedele, la quale si rende simile, per quanto possibile, all’anima di Cristo, alla sua santa umanità.

Non vale invece per il corpo del fedele stesso, corpo che non diventa affatto simile all’ostia (o al vino), né sotto il profilo macroscopico né sotto quello microscopico, ossia biochimico (né d’altra parte chi si comunica assume un corpo simile a quello di Cristo).

 

Le sostanze organiche dell’ostia e del vino dal canto loro subiscono la medesima sorte di qualsiasi altra sostanza che venga ingerita, ossia subiscono varie trasformazioni per venire infine in parte assimilate e in parte espulse.

Il fatto che il corpo e il sangue di Cristo non vengano trasformati, come si premura di assicurarci Urbano IV, è irrilevante ai fini del nostro discorso.

 

Prima dell’ingestione, infatti, essi ci si manifestano sotto le apparenze del pane e del vino, ossia vengono percepiti dai nostri sensi come pane e come vino.

Logica vuole quindi che, nel corso delle trasformazioni subite dalle specie eucaristiche nell’apparato digerente, quel corpo e quel sangue, per quanto non toccati da tale processo (e quindi inalterati), ci appaiano, per così dire, sotto le specie delle sostanze via via prodotte dal processo stesso, ossia con l’aspetto di ciò in cui il pane e il vino si sono tramutati.

Per poter scongiurare tale conclusione (che implica la presenza del divino, nella fase finale del processo, sotto le specie di rifiuti organici), occorrerebbe che il pane e il vino non subissero trasformazioni nell’organismo del fedele, che si dematerializzassero in esso senza lasciar traccia. Il che non è assolutamente ipotizzabile.

 

La tesi della bolla Transiturus poggia sull’ingenua convinzione che le sacre specie, ossia le apparenze sensibili del corpo e del sangue di Cristo, si riducano alle proprietà ottiche e tattili immediatamente percepibili, e quindi di fatto si vanifichino una volta oltrepassata la faringe del credente, in quanto lo sguardo non le può più seguire, così come la mano non le può più toccare.

Ma in realtà la natura fisica del pane e del vino sono definite da una quantità di altri parametri obiettivi, i quali conservano tutta la loro validità anche durante il “viaggio” che le due sostanze compiono a partire dalla bocca e dall’esofago.

 

La convinzione espressa nel documento pontificio è verosimilmente avvalorata dal fatto che il pane e il vino, una volta ingeriti, non sono più distinguibili da tutte le altre sostanze contenute nel tubo gastrointestinale; ma tale circostanza non significa affatto che essi si siano dileguati. Pur non più distinguibili, essi sono comunque presenti, profondamente mutati, nell’organismo di chi li ha ingeriti, fino alle trasformazioni ultime, con le quali vengono in parte assimilati e in parte espulsi.

 

In altre parole: è vero che noi non siamo in grado di dire quali molecole delle sostanze in via di metabolizzazione “siano” il corpo e il sangue di Cristo; ma possiamo affermare con certezza che quel corpo e quel sangue, a meno che non si siano dematerializzati, si trovano tra queste sostanze, prima nello stomaco e poi nell’intestino.

Se essi “erano” – ovvero si nascondevano in – quel pane e quel vino che in essi si erano transustanziati, ora non possono non “essere” le sostanze in cui il pane e il vino si sono trasformati. Il che è perfettamente compatibile col fatto che, come scrive Urbano IV, essi, in quanto corpo e sangue di Cristo, permangono immutati.

 

Per esorcizzare tale conclusione occorrerebbe poter fissare un termine, un istante in cui tale corpo e tale sangue cessano di “essere” il pane e il vino. A questo scopo dobbiamo considerare brevemente un problema cruciale, quello della durata della presenza del corpo e del sangue di Cristo nel fedele comunicatosi.

 

Il Catechismo di san Pio X diceva che “dopo la comunione Gesù Cristo resta in noi finchè durano le specie eucaristiche” (n. 344). E il Catechismo della Chiesa cattolica conferma che “la presenza eucaristica di Cristo ha inizio al momento della consacrazione e continua finché sussistono le specie eucaristiche” (n. 1377). Identica formula figura nel Compendio.

Dal canto suo, san Tommaso già ci assicurava che “la sostanza del pane assunta dal peccatore non cessa immediatamente di esistere, ma permane fino a che non venga digerita in virtù del calore naturale. Altrettanto a lungo pertanto il corpo di Cristo sussiste sotto le specie sacramentali assunte” (III, 80, 3).

 

Si tratta di espressioni molto vaghe, in quanto non si accenna minimamente alle modalità di questo “sussistere”, e soprattutto non si specifica quali condizioni debbono verificarsi perché si possa affermare che le sacre specie non “durano”, ovvero non “sussistono”, ovvero non “permangono” più; così come non è affato chiaro quando abbia inizio quella che Tommaso definisce “digestione”.

 

Una precisazione ce la fornisce il teologo domenicano Roberto Coggi: la presenza di Gesù “cessa al momento dell’assimilazione”, in quanto, dice, “noi non assimiliamo il suo corpo” (RM, 06.12.09). Si dovrebbe quindi dedurre che fino a un istante prima dell’inizio dell’assimilazione tramite i villi intestinali, Gesù è ancora presente, presumibilmente sotto forma di … chilo. Prospettiva certo poco attraente agli occhi del fedele.

In un’altra occasione però (17.01.10), rispondendo alla domanda di un ascoltatore a proposito del raccoglimento che sarebbe auspicabile dopo la comunione (contro l’usanza di uscire subito dalla Chiesa perché la messa è finita), padre Coggi dice che Cristo è presente “fisicamente” nel fedele per circa quindici minuti (cioè “fino a che comincia la digestione delle specie”), dopodiché rimane presente “spiritualmente”. L’inizio della digestione viene visto quindi come elemento che separa le due fasi.

Già; ma “prima digestio fit in ore”. È lì, nella bocca, che si deve porre il salto di qualità, ossia l’inizio della corruzione delle specie; altrimenti è impossibile individuare un momento di rottura della continuità del processo digestivo.

 

Una soluzione più “ragionevole” ce la offre lo Zoffoli nel suo Cristianesimo. Manuale di teologia cristiana: Cristo rimane presente finché le ‘specie consacrate’ restano essenzialmente inalterate”. Ora il problema è impostato in modo più chiaro; ma quando si è autorizzati a parlare di “alterazione”?

 

Per le specie eucaristiche consacrate ma non ancora distribuite ai fedeli, la catechesi sembra non avere dubbi: come già abbiamo ricordato, le ostie custodite nel tabernacolo vanno considerate alterate già quando presentano ad esempio segni di ingiallimento o lievi tracce di muffa; il vino è senz’altro alterato appena inizia ad inacidire. Si tenga presente, tra l’altro, che ostie e vino devono essere dotati di requisiti particolari: l’ostia è di grano puro, il vino proviene da produttori che ne garantiscono la genuinità.

Ma che si deve dire quando si passa a considerare le alterazioni che le specie subiscono nel corpo del fedele? Come si può non vedere che tali alterazioni sono di gran lunga più rapide e più radicali di quelle che le ostie ed il vino possono subire finché sono custoditi nel tabernacolo, o comunque prima di venire ingeriti?

 

 

È chiaro che già la saliva inizia l’opera di trasformazione biochimica sul pane, e in modo ancora più incisivo sul vino. In ogni caso, qualche secondo più tardi, quando con la deglutizione le sacre specie raggiungono lo stomaco, l’azione degli acidi gastrici conferisce loro un aspetto assai diverso da quello accattivante che avevano prima dell’ingestione, come càpita di constatare ogni volta che qualcosa viene espulso dallo stomaco per un conato di vomito.

Siamo bruscamente richiamati alla realtà di quella poltiglia maleolente in cui via via si trasformano gli alimenti una volta ingeriti: la realtà evocata da Gesù con l’esplicita menzione della fogna come loro destinazione finale.

 

Le prescrizioni circa il periodo di digiuno antecedente alla comunione (prescrizioni che la Chiesa negli ultimi tempi ha ripetutamente attenuato ma mai abolito, riducendo il “digiuno dalla mezzanotte” a una durata di tre ore nel 1957 e di un’ora nel 1965) testimoniano l’ingenua preoccupazione di preservare la “purezza” delle sacre specie.

Ma come non vedere che tale purezza è compromessa, ben più che dal contatto con l’hamburger mangiato mezz’ora prima, dall’azione devastante dei succhi gastrici e intestinali?

 

Se ora, alla luce di queste considerazioni, torniamo a considerare il problema che ci eravamo posti, quello di stabilire il momento in cui il corpo ed il sangue di Cristo cessano di “essere” il pane ed il vino (allo scopo di evitare la loro associazione ai rifiuti organici, o comunque al chimo o al chilo gastrointestinali), vediamo che il problema appare praticamente insolubile.

Sotto il profilo teorico, esiste una sola possibilità: l’identificazione dovrebbe cessare al primissimo contatto dell’ostia o del vino con la lingua o le labbra del fedele, poiché già in questo istante ha inizio la prima fase della metabolizzazione, ossia la trasformazione delle specie in bolo per l’azione della saliva. Già a partire da questo istante il pane non è più pane e il vino non è più vino: tutte le trasformazioni successive costituiscono un continuum in cui è impossibile tracciare una linea di demarcazione.

Il vero salto di qualità avviene in questo momento; pertanto, o Cristo cessa di essere quel pane e quel vino al primo contatto con la bocca del fedele o continuerà ad esserlo sino alla trasformazione ultima, e quindi all’espulsione, delle due sostanze.

 

Ora, la prima ipotesi è assolutamente contraria allo spirito dell’eucarestia. L’ostia e il vino vengono normalmente percepiti ed accolti dal fedele come un qualcosa di prezioso da deglutire con dolcezza quasi accompagnandolo col pensiero nella discesa verso le profondità dell’io.

Del resto, se la presenza del Cristo cessasse immediatamente dopo l’assunzione delle sacre specie, si vanificherebbe il significato stesso della comunione, e verrebbe clamorosamente smentita la funzione di nutrimento spirituale del pane e del sangue del Redentore.

 

E non si può ricorrere allo stratagemma di considerare l’associazione del Cristo alle specie eucaristiche come un fatto puramente nominale, tale da dissolversi una volta varcata la soglia delle labbra, nella supposizione che poi il potere santificante permanga, svincolato dal pane e dal vino, mentre le specie che lo hanno veicolato vanno al loro destino di metabolizzazione. Non si può perché l’associazione è dichiaratamente “sostanziale”, come indica il termine stesso di “transustanziazione” (e come confermerebbero del resto i miracoli eucaristici, che mostrano le ostie sanguinanti e di consistenza carnosa).

Appare quindi inevitabile che ciò che entra nel corpo sotto le specie del pane e del vino vi permanga poi, in successione, sotto quelle del bolo, del chimo, del chilo e delle feci.

 

Riassumendo: o la presenza del Cristo nel fedele comunicatosi dura soltanto pochi secondi oppure si protrae sino all’espulsione delle sostanze in cui le sacre specie si sono trasformate.

La prima ipotesi contraddice a tutto quanto la Chiesa predica dell’eucarestia, svuotando il sacramento del suo significato; non resta pertanto che accettare a malincuore la seconda.

La quale, tra l’altro, ha il grottesco corollario di legare la durata dell’inabitazione del Cristo alla regolarità della funzione intestinale, privilegiando chi ha l’intestino più pigro.

 

Possiamo quindi concludere che i dati biblici e la dottrina magisteriale non consentono alcuna interpretazione che escluda il perdurare dell’identificazione del pane e del vino con corpo, sangue, anima e divinità di Cristo sino alle trasformazioni ultime delle specie.

 

 

Nota

 

Il discorso che ci ha portato a questa conclusione ha dovuto di necessità toccare tasti assai delicati e far uso di un linguaggio senz’altro sconveniente alla sublimità che il tema ha per i fedeli. Ma questo non dipende in alcun modo da una nostra volontà di profanazione.

 

Noi abbiamo semplicemente evidenziato un problema reale e innegabile. Abbiamo cercato nei testi teologici e nei documenti del Magistero delle risposte, e le abbiamo trovate manifestamente inadeguate, per nulla atte cioè a fugare alcuni allarmanti dubbi generati dalla problematica eucaristica.

Di conseguenza, ci siamo limitati ad “esplicitare l’implicito” (secondo l’aureo principio dell’esegesi e della teologia ufficiali applicate ai testi biblici), giungendo a conclusioni obiettivamente sgradevoli, al limite della blasfemia, che saremmo lieti di vedere smentite da analisi razionali e inoppugnabili.

 

In ogni caso, ci siamo tenuti lontani dal tono beffardo usato da Gesù per demolire l’illusione di un influsso del cibo ingerito sull’anima.

Ed è superfluo ribadire che sono proprio le parole di Gesù esaminate nel capitolo precedente a farci sentire autorizzati a proporre in termini espliciti una serie di questioni che la teologia preferirebbe occultare perché altamente imbarazzanti.

 

La conclusione è che il nocciolo del problema sta nella corriva accettazione, da parte della Chiesa, della prospettiva giovannea che vede nel corpo e nel sangue di Cristo un vero cibo e una vera bevanda di cui nutrire lo spirito per avere accesso alla vita eterna.

L’accoglimento incondizionato di tale prospettiva, addirittura enfatizzata dalla catechesi e dalla pastorale con toni di esaltazione misticheggiante (cfr. “Senza la domenica non possiamo vivere”) avrebbe richiesto un severo approfondimento teologico, vòlto ad esaminare e scongiurare i suoi inquietanti corollari.

 

Tale approfondimento la Chiesa non si è mai data la pena di farlo. Ma si sa che lo sporco non si elimina nascondendolo sotto il tappeto. I delicatissimi problemi legati all’ingestione e alla metabolizzazione delle sacre specie e al loro rapporto con il corpo ed il sangue di Cristo sono ancora tutti lì, irrisolti, se si ha il coraggio di aprire gli occhi per vederli.

 

Noi abbiamo lanciato un sasso nello stagno. Chi ne fosse rimasto scandalizzato, dimostri con validi argomenti che le nostre non sono che elucubrazioni prive di fondamento.  

 

 

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